Tamara- di BANCHIO Michelle






Roma, 12 gennaio, 2010
Caro Diario,
l’unico sfogo che mi rimane è scrivere. Ormai sono ridotta all’isolamento: ho paura ad uscire, a rispondere al citofono, ho paura persino a stare sul balcone di casa. Già, è incredibile come la crudeltà di un solo uomo riesca a schiacciare con una forza incontrastabile ogni briciola di dignità di una donna.
Iniziò tutto circa sei mesi fa. Era un caldo giorno di metà luglio, e mi trovavo alla fermata della metropolitana, di ritorno dall’università. Sembrava un giorno come tutti gli altri: la gente che scende e sale di fretta dalla metro, i bar affollati di uomini d’affari che si affrettano a digitare qualcosa sul loro PC, mentre addentano una brioche, e gruppetti di ragazzini che fumano mentre ascoltano musica.
Scesi al capolinea e mi incamminai verso casa. Ad un certo punto cominciai a sentire dei passi dietro di me, passi sempre più veloci e il cui rumore risuona ancora oggi dentro la mia testa come uno spaventoso tuono. Cercai di non farci caso, ma non riuscivo a stare tranquilla. Svoltai nello stretto vicolo che conduceva al mio quartiere. Dopo pochi passi, sentii la persona dietro di me scattare in una corsa; non feci in tempo a voltarmi che mi ritrovai la mano di un uomo sulla bocca e l’altra trattenermi per il bacino.
Ricordo quel momento nei minimi particolari. Mi disse: “se fai la brava, sarà una cosa veloce…”. Mi spinse verso la parete dell’edificio che costeggiava il vicolo e mi voltò verso di lui, continuando a mantenermi bloccata nella sua morsa. Paradossalmente, non ricordo molto del suo aspetto fisico, ma ho fissa nella mente l’immagine dei suoi occhi vitrei che, con uno sguardo, ghiacciavano il sangue, e della sua espressione minacciosa ma allo stesso tempo beffarda e compiaciuta.
Mi aveva bloccato le mani sopra la testa con una mano e con l’altra mi aveva abbassato i pantaloni e gli slip: furono gli attimi più lunghi e dolorosi di tutta la mia vita. Aveva mantenuto la parola… appena ottenuto ciò che voleva se ne era andato, lasciandomi lì come un cane abbandonato per strada, mezza nuda e ricoperta di ferite sanguinanti e di lividi.
Rimasi lì per qualche minuto; ero sconvolta, ma non riuscivo nemmeno a piangere, ero come impietrita dal terrore. Non so come, ma ebbi la forza di tornare a casa il più veloce possibile. Mi vergognavo delle condizioni in cui ero stata ridotta e, allo stesso tempo, avevo paura di dover spiegare a qualcuno ciò che mi era accaduto.
Rimasi per giorni chiusa in casa, senza parlare con nessuno. Avevo la sensazione di essere sporca, sentivo ancora addosso l’odore penetrante di quell’uomo, provavo ancora la sensazione di avere le sue mani che mi soffocavano.
Dopo quasi un mese da quell’evento orribile mi decisi a sporgere denuncia. I carabinieri mi chiesero di descrivere l’aggressore ed io riferii i pochi tratti che ricordavo di lui. Mi dissero che la mia descrizione corrispondeva con quella di diverse altre donne che, come me, erano state violentate e che l’uomo era già da tempo ricercato. La cosa non mi rassicurò per nulla, anzi mi terrorizzò l’idea che nessuno fosse ancora riuscito a fermarlo e, soprattutto, fui assalita dal pensiero che avrebbe potuto colpire ancora.
Quel mostro cominciò a passare periodicamente davanti a casa e la cosa continua tuttora. A volte si ferma e comincia a fissare la finestra del mio monolocale, talvolta suona insistentemente il campanello.
È diventato un incubo. Dentro di me non sento nient’altro che paura, non riesco a chiedere aiuto a nessuno, cerco solo di soffocare in ogni modo il dolore che sento.
Ora credo davvero di non farcela più: la mia vita si è ridotta a un insopportabile senso di ansia costante; giorno e notte mi scorrono nella mente le immagini di ciò che successe quel giorno e di ciò che può accadermi ogni volta che esco di casa. Mi sento in gabbia, la mia vita non è più mia, se l’è presa quell’essere abominevole, mi ha risucchiato la libertà e la felicità e ora mi tiene prigioniera a distanza.
Voglio morire.
In realtà sono già morta dentro, ma voglio porre fine a questa mia esistenza che non è più degna di questo nome, non vedo altra via d’uscita.
Spero soltanto che un giorno quell’uomo, che mi ha propriamente uccisa, abbia ciò che si merita.
Tamarah




 



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