Yamia- di COGNO Lucrezia




Un giorno come tanti: scendo dal pullman, salgo in macchina e saluto gli amici dal finestrino; corro per le scale, porto la cartella in camera e poi finalmente mi preparo per mangiare pranzo, con quell’odorino che ogni giorno riempie la casa, come volesse dire “anche oggi qualcuno ha pensato a te”. Infilo la maglia mentre scendo le scale ma, gradino dopo gradino, qualcosa mi stupisce: è un bisbiglio, ma non proviene dalla televisione e non è nemmeno la mamma, che quel giorno aveva lasciato le pentole fumanti sul tavolo. Mi avvicino alla cucina e non vedo altro che un’ombra; la seguo con gli occhi, sino alla sedia, finché capisco che si tratta di Yamia, la ragazza iraniana che da qualche giorno si era trasferita vicino a noi.
Non la capivo: io la salutavo e lei si copriva il volto, andandosene.
La prima reazione istintiva è di rabbia: “Cosa ci fa a casa mia all’ora di pranzo? È l’unico momento di tranquillità per poter raccontare la giornata ai miei genitori!”, penso; forse non avevo valutato il fatto che nessuno, probabilmente, l’avesse mai ascoltata. Allora mi accovaccio vicino allo stipite della porta, in silenzio, e porgo l’orecchio: sin dalle prime parole rabbrividisco, e la fame se ne va. Nella mia testa rimbomba ancora la sua voce, quella che ho deciso di riportare, perché sono troppo debole per poterla raccontare.
“Ricordo quel giorno: eravamo tutte in fila, con il capo chino e gli occhi bassi, le ginocchia tremanti coperte dal lungo burqa e le mani intrecciate per la paura. Poi un rumore sordo e la porta che si spalanca: lui indossava una tunica nera … non era mai solo, ma sempre accompagnato dalle sue guardie armate; ci guardava mentre noi piangevamo silenziosamente, perché chissà, anche quello sarebbe stato un pretesto per picchiarci. Ed ecco la scelta della “preda”: non ho avuto il tempo di gridare e già mi sentivo strattonata; calci e insulti, coperti dai miei lamenti ed infine una stanza buia, senza finestra, senza vie di fuga. La mia vita era definitivamente segnata: ero diventata la nuova schiava di uno jihadista. Già: di quegli uomini di cui sentite parlare qui, quelli che però picchiano noi, del loro stesso Paese. Non sentivo più il mio corpo, era come intorpidito, e nelle mie orecchie risuonava la voce di una bambina di sei anni, a cui era toccata la stessa sorte. Lui aveva iniziato a mettermi le mani addosso, le stesse mani che poco prima avevano colpito il mio volto, così forte, che improvvisamente delle gocce di sangue avevano cominciato a cadere sul pavimento. Avevo paura, tanta, volevo solo scappare; così avevo tentato di ferirmi da sola con un pezzo di vetro caduto vicino all’entrata; che stupida, per un attimo avevo pensato di essere riuscita a farla finita ma, una volta giunta in ospedale, compresi di aver soltanto rimandato il mio destino. Infatti, erano solo dei tagli, quindi pochi minuti …e la tortura sarebbe ricominciata. Così, da quel momento, lui iniziò ad abusare di me cinque volte al giorno, e nessuno osava impedire che questo accadesse. Perché ora lo so: le parole spaventano tutti ma, fidatevi, mai quanto la violenza. Per questo sono qui, ora: per far conoscere a tutti la mia storia, gridarla al vento e liberarmi di un incubo che, dopo cinque anni, mi impedisce ancora di dormire!”

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