Mary- di BERTINETTO Isabella



È notte. Una bellissima notte, le stelle splendono come non mai; una fievole brezza primaverile muove leggermente le foglie appena nate. Tutto è tranquillo; l’unico rumore è quello, lontano, della città; tutto tace, come quella notte.
È già passato un anno da allora, cioè dal giorno in cui lui mi fece provare cosa vuol dire essere all’Inferno.
L’ho conosciuto qualche mese prima della terribile notte; sembrava una persona dolce ed affabile. Ma ogni essere umano ha una maschera: chi ne ha una, chi ne ha mille; lui ne aveva tante, e fatte dannatamente bene.
Ricordo ancora come mi guardava, come mi parlava, come mi amava, ma soprattutto come mi picchiava. Ha iniziato un mese dopo il nostro incontro: eravamo nel suo appartamento, stavamo guardando un film insieme. Non ricordo quale, so solo che un attimo prima ridevamo, l’attimo dopo lui mi picchiava, tirandomi calci e pugni. Non capisco cosa lo abbia fatto arrabbiare: tuttora non lo comprendo.
I giorni passavano e le botte aumentavano. Non ce la facevo più.
Mettevo sempre maglie lunghe per nascondere i lividi sulle braccia, non andavo più in piscina, in palestra o dal dottore. Le mie amiche iniziarono a tempestarmi di domande, i miei genitori non capivano cosa mi stesse succedendo; tutti volevano aiutarmi. Ed io li rifiutavo dicendo: “Sto bene, sono solo sotto stress in questi giorni”, evitavo i loro sguardi, perché sapevo che avevano capito tutto, che gli stavo mentendo.
Un giorno, però, stanca per gli abusi, sbottai: confessai tutto ai miei genitori e, con il loro aiuto, denunciai il “mostro” che per mesi aveva usato, su di me, ogni tipo di violenza.
Pensai di essere al sicuro, ma non fu così.
Una sera andai al giardino dietro casa dei miei, dove vivevo da quando l’avevo incriminato per violenza e abuso. Ero felice di vivere finalmente una vita migliore, e sapere di non dover convivere mai più insieme a quell’incubo. Ad un tratto sentii un fruscio dietro le mie spalle; credetti fosse mio padre, che aveva la brutta abitudine di spaventare le persone appena ne aveva l’occasione. Mi girai prontamente per rovinargli i piani e godermi la sua faccia un po’ delusa, ma allo stesso tempo divertita.
Effettivamente c’era qualcuno dietro di me, però non mio padre, era “lui”, il “mostro”, il “demonio”, o semplicemente Raffaele che mi guardava. Il suo sguardo era pieno d’odio. Lo osservai, incapace di fare qualsiasi cosa e, subito dopo, mi si avventò contro fulmineo e mi accoltellò più e più volte. All’inizio gridavo con tutto il fiato che avevo in corpo, ma dopo pochi secondi la voce si affievolì, la mia vista si stava appannando, e pian piano le mie palpebre si abbassavano. Forse questa era la pace che desideravo realmente: morire dopo tutto quel dolore mi sembrava la via di fuga più semplice. “Non voglio morire”, pensai. “Voglio vivere”, mentre le lacrime bagnavano il mio viso.
L’ultima cosa che vidi erano i miei genitori che urlavano il mio nome: “Mary!”.
E poi calò il buio.
È notte. Una bellissima notte, le stelle splendono come non mai; una fievole brezza primaverile muove leggermente le foglie appena nate. Tutto è tranquillo, l’unico rumore è quello, lontano, della città.
Tutto tace. Una ragazza, ormai tra le braccia del sonno eterno, sorride al cielo notturno, posata su una rosa rossa che si allarga sempre più, finalmente in pace.


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