Hanan- di MADAFFERI Michela



Questa non è una storia, solo qualche parola scritta su un foglio di carta, di cui un giorno non rimarrà niente. Questa è una voce che vuole essere ascoltata, rimasta nel silenzio per troppo tempo e che, anche se sarà narrata indirettamente, non perderà il suo valore. In questa vicenda io sono solo una comparsa, e fungerò da sfondo ai fatti.
Karin ed io condividevamo l’alloggio, perché nessuna delle due aveva soldi a sufficienza per pagare sia gli studi, sia un appartamento decente. Non frequentavamo gli stessi corsi, ma trascorrevamo la maggior parte del tempo insieme, e questo permise ad entrambe di conoscerci a fondo. Provenivamo da due mondi completamente differenti: lei iraniana, io italiana a tutti gli effetti. Due culture e due origini diverse che ci avevano portato a lottare per un sogno comune: studiare legge per poter far sentire la nostra voce nel mondo, chiedendo giustizia dove questa è inesistente. E uguaglianza, ove non si conosce la parità. Entrambe ci portavamo alle spalle storie terribili, ma quella di Karin ancora non l’aveva lasciata andare. Un giorno ricevette una lettera. Era sua sorella, Hanan.

Cara Karin, 
sono passati 7 anni dall’ultima volta che ci siamo viste, da quando hai preparato le valigie di fretta, avvertendo che saresti partita. Nessuno è riuscito a fermarti, né mamma né io, non volevi sentire ragioni, perché sapevi che la vita che stavi vivendo non ti era mai appartenuta. Ti ricordi ancora di mio marito, Alì? E del piccolo Amir? Aveva pochi mesi quando te ne sei andata, ma adesso non è più così piccolo. Sono cambiate molte cose. La guerra le ha cambiate. Ha sconvolto la vita di tutti qui al villaggio. Anche la mia.
È successo tutto in un attimo. Uno scoppio e BOOM: tutto il mondo è saltato in aria. Spari, fuoco, terrore, buio in nome di un Dio nel quale ho smesso di credere tanto tempo fa, prima che trasportasse la mia vita all’inferno.
Quel giorno io e Alì stavamo accompagnando Amir a scuola. Il suo primo giorno di scuola: non immagini neanche quanto fosse contento. Saltellava di qua e di là come un matto, con lo zainetto sulle spalle che sovrastava il suo corpicino, e ogni tanto gli faceva perdere l’equilibrio. All’ennesimo salto cadde e si sbucciò tutte le ginocchia. Pianse alla vista del sangue. Mi chinai per baciargli affettuosamente la ferita e incoraggiarlo ad alzarsi, ma fu Alì a rimetterlo in piedi asciugandogli le lacrime. Poi si avvicinò al suo orecchio e sussurrò con un tono di voce abbastanza alto da permettermi di sentire: “Gli uomini non piangono. O almeno, non davanti alle belle signorine.- disse facendomi un segno- Quindi basta singhiozzare e dimostriamo alla mamma di che pasta siamo fatti. Pronto, soldato?”. Con un suo cenno deciso iniziarono la marcia accompagnata da un solenne “Sinistr- destr, sinistr- destr”. Quanto ero fiera di loro, i miei uomini. 
Arrivarono quindi a scuola come dei soldati, sotto lo sguardo sorpreso dei presenti. Amir si girò e ci corse incontro. Alì lo prese in braccio stringendolo forte e io mi unii a loro. A rompere la magia fu il rombare di un motore che si faceva sempre più vicino, e poi un urlo. Alì mi spinse dietro ad un blocco di pietra. Fui travolta dalle fiamme. Il masso protesse il mio corpo, ma tutto intorno la gente bruciava, cadeva a terra colpita, e le case saltavano in aria. I responsabili sfrecciarono subito dopo tra le macerie per ammirare il loro “capolavoro” e io mi trascinai per nascondermi ed evitare di essere catturata. Quando potei alzarmi, desiderai non averlo mai fatto. Corpi di bambini smembrati in ogni angolo, pianti per quei pochi sopravvissuti senza un arto, o con frammenti nel viso. Ma della mia famiglia niente, non riuscivo ad incrociare il loro sguardo e ci misi poco a capire perché. Alì aveva intuito prima di tutti cosa stava succedendo. Aveva salvato prima me, poi si era girato, inginocchiandosi, aveva avvolto il corpo di Amir. Il fuoco l’aveva colpito in un attimo bruciandogli la schiena fino a penetrargli le ossa, ma lui non si era spostato, aveva sopportato un dolore tremendo senza lasciare mai la presa. Mio marito è morto così. È morto per salvare nostro figlio. 
Li ritrovai in quella stessa posizione: le braccia quasi cenere attorno al suo corpo. Amir era svenuto, forse per il dolore. I soccorsi giunsero qualche minuto più tardi. Io ero ancora immobile, non avevo avuto il coraggio di spostare quel che rimaneva di mio marito. Portarono tutti i superstiti nel campo medico più vicino: Amir riportò ustioni di secondo e terzo grado su parte della schiena e sul braccio destro, che rischiava di perdere se non ci avessero portati in un vero ospedale. Il viaggio durò tre ore, durante le quali lui si svegliò. I suoi polmoni esplosero in grida che una madre non vorrebbe mai sentire. Cercavo di consolarlo ma, le mie guance, fino ad allora asciutte, si rigarono all’improvviso di lacrime, mentre con la mano mi stringeva il vestito per il dolore. Vedendomi piangere, il mio bambino fece una cosa incredibile. Le urla cessarono e, come se avesse capito che adesso sarebbe toccato a lui proteggere la famiglia, mi accarezzò il viso. Trattenne tutto il dolore in sé stesso, per dimostrare che lui era lì e che era abbastanza forte per prendersi cura di me. Gli strinsi la mano e la baciai. Anche io avrei dovuto essere abbastanza forte per lui, per potergli dare la vita che si meritava e, quel giorno, lo promisi. Promisi che non avrei mai reso vano il sacrificio di mio marito. Lo avrei reso orgoglioso di lui e di me.
Giunti alla struttura ospedaliera, i dottori si rifiutarono di fornire ad Amir un letto e le cure occorrenti se non avessimo avuto i soldi necessari. Io e Alì eravamo sempre stati scrupolosi nel mettere da parte quei pochi soldi che riusciva a guadagnare, a volte rimanendo a stomaco vuoto per giorni, ma le spese si rivelarono più ingenti del previsto e, con quei soldi, sarei riuscita a coprirne solo una parte; senza contare che poi non ci sarebbe più rimasto niente, una volta finito l’inferno. Ma la verità era che l’inferno non sarebbe mai finito. 
Un medico, diventato vedovo da poco tempo, si offrì di pagare le spese per far curare Amir se mi fossi venduta a lui, se fossi diventata sua moglie. Non volevo farlo. Non volevo tradire mio marito. Non volevo che mio figlio pensasse che avessi sostituito suo padre così facilmente. Non volevo, ma lo feci. Vendetti il mio corpo e la mia dignità e diventai proprietà di un estraneo. Un estraneo che sposai a forza, che non mi permetteva di uscire di casa, che non voleva lo guardassi negli occhi perché donna e quindi inferiore, ma che ogni sera mi violentava nel suo letto, picchiandomi se ponevo resistenza, se urlavo o non gemevo il suo nome per farlo sentire potente. Man mano che Amir guariva, io al contrario diventavo sempre più debole, con più lividi e tagli. Quell’uomo, di cui ora sono incinta, è riuscito ad annullarmi come persona, ma sono fiera di aver mantenuto la promessa perché oggi Amir è tornato a scuola, completamente guarito, per costruirsi un futuro del quale solo lui sarà padrone. 
Sorella mia amata, non ti ho scritto questa lettera per essere compatita, ma per dirti quanto sono orgogliosa di te che hai avuto il coraggio di andartene e prendere in mano il tuo destino. Lotta. Per noi tutte. Affinché nessuna donna sia più una semplice proprietà. Lotta per la libertà e l’uguaglianza, perché ogni donna possa un giorno sedersi alla pari tra gli uomini ed esprimere le proprie opinioni. Ed infine lotta per te, per non farti calpestare da nessuno, perché nessuno sarà mai forte come te, che avrai dalla tua parte le donne di tutto il mondo. 
Spero di riabbracciarti presto, magari lì in Italia che tu descrivi così diversa. 
Un bacio anche da Amir, 
Hanan

La lettera risaliva a qualche mese prima. Karin prese il primo volo per raggiungere la sorella, ma quando arrivò era troppo tardi. Hanan era morta durante il parto e neanche la bambina si era salvata. L’uomo che aveva sposato ripudiò Amir e lei riuscì ad ottenerne la custodia. Oggi entrambi sono in Italia ricostruendo insieme una nuova vita. Karin è diventata avvocato e Amir continua a frequentare gli studi che aveva abbandonato in Iran. La nuova lingua, di certo, non ha ostacolato la sua istruzione, anch’essa indirizzata verso il ramo di giurisprudenza.


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