Quando una notte di fine luglio dell’estate 2010 arrivai a Mepanhira, Niassa, nel Mozambico-
dopo una giornata di jeep attraverso un paesaggio stupendo che
intervallava boscaglie a alberi secolari
e a capanne- fui accolta dal silenzio della ex missione
dove si trovano la chiesa, la casa del sacerdote diocesano, quella di tre suore
che si occupano dell’orfanotrofio e lo stesso orfanotrofio.
Il paesaggio
sembrava magico illuminato dal bagliore della luna piena che con la sua intensa
luce offuscava la bellezza delle stelle, della via lattea e persino della Croce
del Sud. Attorno a me occhi bianchi penetravano il buio e passi felpati si
muovevano attorno alla jeep per aiutarci a scaricare i bagagli. In cuore ebbi
subito la sensazione di essere tornata a "casa". Tornavo, infatti, a Mepanhira per la terza
volta.
Con una candela in una mano e un fagotto nell'altra andai a
letto, esausta dalla pioggia di emozioni e dal
viaggio- percorrere otto
ore in jeep procura, infatti, lo stesso indolenzimento di una giornata di
intensa attività sportiva.
Il mio spartano letto situato di fronte alla finestra mi
permise di abbracciare in un ultimo sguardo la sagoma del campanile della
chiesa che si stagliava contro un cielo immenso coperto di un manto di stelle,
prima di scendere tra le braccia di Morfeo.
L’indomani giunse il
momento che aspettavo da un anno intero: l’incontro con i bambini
dell’Infantario! Alla vista della macchina fotografica pianti e strilli che
smettevano ogni qualvolta i bambini erano impegnati a sbaffare il contenuto dei
loro piatti; allora diventavano malleabili, sorridenti, persino complici.
Poi
con il passare dei giorni la loro ritrosia si cambiò in simpatia: mi
aspettavano, mi osservavano, alcuni ancora timidi altri più sicuri mi venivano incontro, si lasciavano
accarezzare, toccare, abbracciare, baciare; la loro pelle morbida e liscia, i loro occhi alla ricerca
di amore e di coccole, il loro sorriso timido ma accattivante ti stregavano e non
potevi far a meno di sederti vicino a loro , di diventare un po’ bambina,
giocare con loro e farti prendere il cuore dalle loro risate cristalline e
innocenti.
Anche questi bambini, come tutti i bambini del mondo giocano!
I loro giochi sono molto creativi: si
costruiscono essi stessi i giocattoli, adoperando con disinvoltura il coltello,
oppure facendo costruzioni con la sabbia nientemeno che sulla strada. Un gioco
popolare, tra i bambini più grandi, è il calcio: il pallone è costruito
artigianalmente con un semplice palloncino gonfiabile, ricoperto per diversi
strati da borse di nylon avvolte l'una
sulla altra fino a formare una palla, che come per magia rimbalza come un vero
pallone di cuoio.
Uno dei giochi più amati consiste in un cerchione di bicicletta che anche i più piccoli fanno rotolare con maestria lungo la strada o nei cortili delle loro case.
Uno dei giochi più amati consiste in un cerchione di bicicletta che anche i più piccoli fanno rotolare con maestria lungo la strada o nei cortili delle loro case.
Le bambine giocano a gruppi al gioco
che facevamo noi da piccole con i noccioli delle pesche, loro però usano i
sassolini.
Nel corso della giornata i momenti di allegria e felicità , purtroppo, si alternavano a momenti più difficili, quando si dovevano lavare sotto l’acqua gelida, oppure quando facevano i capricci, ma il dolore che porterò sempre scolpito nel cuore è quando, dopo una corsa di 40 km per portare Rita all’ospedale più vicino, mi accorsi che era morta fra le mie braccia: un esserino di due settimane se ne era andata in silenzio, senza un pianto, senza un gemito e io continuavo a tenere le sue manine nascoste dalle coperte nella mia mano per riscaldarle… ma inutilmente. Rita, che aveva perso la mamma-bambina nel momento in cui veniva alla luce, era ritornata con lei a casa nella luce eterna, quella che brilla per sempre!
Il lungo
percorso in jeep per riportare il suo corpicino inerme alla nonna e ai parenti fra buche profonde e
strade rese sdrucciolevoli per la sabbia ,e poi la lunga camminata sotto il
sole cocente nell’ora di mezzogiorno in un corteo che si allungava man mano che
passavamo vicino alle capanne, le donne che ci accompagnavano con nenie di
lutto intercalate da pianti , l’arrivo alla palhota- capanna che, non si sa
come, era già stata preparata per lei, il depositarla sulla nuda terra da cui
la separava solo una stuoia che sarebbe servita anche da bara, l’ultimo sguardo
a quel viso disteso, a quelle manine minuscole, tutte queste emozioni non mi
lasceranno più.
Questa è l’Africa: nascere, tentare di vivere, morire… rassegnazione!
Nessun commento:
Posta un commento