Elisa- di PEOTTA Giorgia


Carissimi mamma e papà,

ci sono riuscita. Ho superato questi vent’anni di prigionia. Costretta a fare cose contro la mia natura, a tacere e ad accettare insulti, botte e urla. In questi anni non mi sono sentita donna, femmina, umana. 

Ero appena una ragazzina di sedici anni, bella, giovane e avrei dovuto anche essere libera e spensierata. La mia rovina è stata un amore adolescenziale, o almeno cosi credevo che fosse.

Iniziammo a frequentarci. Con lui stavo bene, mi divertivo e sembrava così gentile e beneducato che me ne innamorai in fretta.Veniva sempre a prendermi a scuola, mi aiutava con lo studio e sapeva sempre come farmi ridere.

Dopo alcuni mesi ci lasciammo. Lui aveva finito le superiori e sarebbe andato a vivere lontano da me. Fui io a troncare la storia. Non l’avessi mai fatto. 

Pur essendo in un'altra città sapeva sempre tutto di me: con chi uscivo, con chi mi frequentavo, dove andavo. Ogni tanto me lo ritrovavo davanti a scuola, fermo al solito punto dove mi aspettava quando ci frequentavamo. Non capii che quegli atteggiamenti erano tipici di chi non si arrende, di chi non accetta la realtà.

Nonostante i miei dubbi iniziai ad uscire nuovamente con lui. In quel preciso istante finì la mia vita.

Lo presentai a voi, a tutta la famiglia, ma fu lui a volerlo. Mi diceva che se non l’avessi fatto sarebbe stata la fine per me, quindi lo feci. 

Era totalmente un’altra persona quando eravamo a casa. Gentile, disponibile, educato. Era quasi un figlio per voi, ma quando uscivamo era una tortura continua. 

Dopo due anni di costrizioni e di oppressioni andammo a vivere insieme, nella città in cui lui lavorava. Pensavo che le cose sarebbero cambiate, che con il lavoro non sarebbe stato più così tanto opprimente e possessivo.

Non andava mai bene niente: come cucinavo, come mi vestivo, come mi truccavo. Anche quando andavamo a cena fuori dovevo vestirmi in modo da non attirare l’attenzione di nessuno. Non potevo essere bella, sentirmi a mio agio o camminare a testa alta, sicura della donna che ero.

Chiudevo un occhio anche per quello, pensando fosse lo stress. Una sera mi strattonò in modo violento. Fu l’inizio dell’infermo, la scomparsa della mia dignità.

Iniziò ad alzare le mani. Prima uno schiaffo, poi due, tre e a quelli si aggiunsero anche i pugni e i calci. Arrivavo a fine giornata devastata, stanca, sfruttata e piena di lividi. Quando sapeva che voi sareste venuti a trovarci si faceva perdonare con mazzi di rose, abbracci, carezze e qualche giornata al mare ed io ogni volta ci cascavo, nella sua trappola mortale.

Quanto ero stupida ed ingenua. Gli occhi coperti di amore.


Nessun commento:

Posta un commento