ANASTASIA di Fraire Sabrina






Nel 2014 mia figlia, di cui parlerò con lo pseudonimo di Anastasia, lasciò l’Italia diretta verso gli Stati Uniti. Era stata ammessa in un’importante università della Virginia, studi che avrebbe compiuto realizzando il sogno che aveva sin da bambina, cioè diventare giornalista per un’importante rivista di attualità inglese. Non siamo mai stati una famiglia particolarmente abbiente, e dal giorno in cui io e mio marito divorziammo (e ottenni l’affidamento di Anastasia, che allora aveva sette anni) la situazione non migliorò. Il padre scomparve dalla nostra vita, cambiò la sua e si trasferì altrove. Cominciai a lavorare di più per non farle mancare nulla: per lei avrei fatto qualunque sacrificio, come penso ogni altra madre che vuole vedere i propri figli realizzare i loro desideri. Così quando appresi la notizia che era stata ammessa fui orgogliosa di mia figlia, che era cresciuta educata ed intelligente nonostante l’assenza del padre. Io inizialmente ero spaventata, non tanto perché non mi fidassi di lei, ragazza assolutamente in gamba e matura, quanto per la paura del fatto che si sarebbe trovata, sola, per la prima volta, in un posto del tutto nuovo, lontano migliaia di chilometri da casa. Eppure la mia bambina era diventata una donna che non aveva più bisogna della buonanotte, né delle cure della mamma se aveva la febbre.

Il primo mese di sua assenza fu difficile, ma ricevevo sue notizie almeno un paio di volte a settimana: Anastasia sembrava felice, doveva studiare molto, “ma è quello che mi hai insegnato tu mamma, per ottenere ciò che vogliamo dobbiamo sudare più di sette camicie”. Queste parole mi avevano fatta piangere, mia figlia dimostrava davvero di meritarsi ciò che stava vivendo. L’anno scolastico terminò a giugno 2015 e Anastasia trascorse l’estate con me a Roma. A settembre dovette ripartire e mi lasciò con un bacio sulla fronte e la sua mano che mi salutava. Quell’anno non sarebbe tornata a casa per Natale, forse per le vacanze di Pasqua, ma gli esami le impedivano il ritorno.

Ricevetti una sua chiamata a maggio, mi disse che aveva trovato dei biglietti, “per te” mi disse “parti tra due giorni e vieni a trovarmi. Mamma, non sei contenta?” le dissi sì, sono contenta. Ma i soldi? Come avrei pagato il biglietto? “Non ti preoccupare, ci ho già pensato io”. Non volevo che spendesse soldi, gliene potevo dare così pochi… mi rispose che se li era procurati, che poteva anche darmene se ne avessi avuto bisogno.

“Hai lavorato, tesoro?”

“Diciamo di sì”

“E dove hai trovato impiego?”. Pensai al bar del campus.

“Mamma, promettimi che non ti spaventerai. Mi sono rivolta ad un’agenzia, e delle persone mi hanno contattata. No, mamma, non mi sono prostituita. Queste persone non potevano avere un bambino, la donna non poteva, ma loro ne volevano uno. Qui la cosa è legale. Ho solo dovuto firmare.“ Utero in affitto. Le parole mi scivolarono addosso come lei era scivolata via dalle mie braccia, tanto tempo prima.

“Mi avrebbero pagata trenta mila dollari. Ci credi? La gravidanza è andata benissimo, non ho avuto problemi, il bimbo è nato ed è nelle loro mani, sono persone buone e disponibili, starà bene. Io sto bene”

No mamma, non mi sono prostituita. Trenta mila dollari. Io sto bene.

Quando arrivai da lei tre giorni dopo la guardai. Che bella la mia bambina. Mi raccontò della gravidanza, di come l’avevano curata in una clinica privata e non la avessero mai abbandonata.

“Non te l’ho detto perché non volevo farti preoccupare, ma sapevo che avevi bisogno di soldi e io non potevo più continuare a chidertene per le tasse universitarie”.

Tesoro, come puoi parlarmi così? Come puoi guardare in faccia tua madre, usare questo tono calmo, pacato, lo stesso che hai usato per mentirmi nove mesi, come se mi stessi raccontando un sogno? Come puoi guardare in faccia tua madre, che ti ha cresciuta con dei principi, una morale?

“No, mamma, non sono pentita. Non ho fatto niente di male. Ho aiutato delle persone e sono felice di averlo fatto”. Felice? È felicità lasciare che il seme di uno sconosciuto vìoli la propria intimità, in cambio di denaro? Tesoro, questa è prostituzione, sotto le mentite spoglie di un atto legale.

Cominciai a domandarmi se fossi io la responsabile di quanto accaduto: forse non ero stata abbastanza severa con lei, forse non avevo verificato ciò che le avevo insegnato, che il corpo non è un oggetto, il corpo va curato e protetto. Soprattutto una donna deve custodire la propria intimità, perché la vita che le si crea dentro è un miracolo immenso, che si ha l’obbligo di tutelare. Forse tutto questo non lo aveva recepito a causa della mancanza del padre; come si può apprendere il rispetto verso i figli se non ne si ha ricevuto?

Quel bambino non lo potevamo vedere. Mia figlia aveva dato alla luce una creatura che le era stata sottratta e che io, nonna, non potevo tenere tra le braccia. Anastasia non sembrava sentirsi in colpa, né provare nostalgia del bambino. Mi raccontava dei nove mesi assistiti, in cui era persino riuscita a completare gli studi e a sostenere gli esami. La vita le era scorsa davanti, ma l’aveva vissuta?

Oppure mi stavo sbagliando io e tutto ciò era una cosa assolutamente normale negli Stati Uniti, una pratica come un’altra, difesa dalla legge? Questi atti non andrebbero denunciati? Impossessarsi del corpo femminile, strumentalizzarlo, usarlo per creare figli che vengono distribuiti a delle famiglie non è una macabra compravendita della vita umana?

È passato un anno, Anastasia è ancora all’estero, al terzo anno universitario. È serena, ha tante amiche. Non sono sicura che si debba parlare di perdono: chi avrebbe dovuto perdonare chi? Avrei dovuto domandarle scusa per aver pianto davanti a lei, perché non sono stata capace di dirle altro se non qualche frase in preda alla rabbia prima, e poi aver tentato di spiegarle che no, così non va bene, figlia mia, non è così che ci si procura da vivere? Oppure avrei dovuto perdonarla perché ha lasciato il proprio corpo in balìa della volontà altrui?

Sono mesi ormai, che la notte sogno il bambino nelle braccia di una madre che non gli assomiglia, mentre mia figlia è in un angolo, in silenzio: si copre la pancia, guarda l’uomo e poi il piccolo.   




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