Arrivederci, Mepanhira!


#Mozambico, day 20

Con questo tramonto nei campi dello zio di Olivia, lascio un pezzo di cuore a Mepanhira. Quando mi avevano detto che avrebbe potuto succedere, non ci avevo dato troppo peso. Forse perché sembra impensabile che, un posto dimenticato da Dio, in mezzo alla savana, che non è neanche segnato sulla cartina, una comunità in cui manca elettricità, rete e si fa la fame, dove i topi arrivano a rosicchiare le banane sul tavolo, coperte dai tovaglioli di stoffa, e dove i bambini non sanno cosa sono gli Smarties, possa dare tanto.

Invece è proprio così. Complice il cielo stellato, in assoluto il più bello e magico che io abbia mai visto, la chiesa che spicca in mezzo a tutti quegli alberi, tanto bella fuori quanto spoglia e malandata dentro, e l'affetto dei bambini dell'orfanotrofio. Più delle bimbe, delle mini me con i miei occhiali da sole, gli smalti sulla tonalità del rosa e il mio marsupio, che controllano attentamente che abbia le cerniere chiuse. E se Elias prova a aprirne una, lo picchiano. Poco importa se ha attacchi epilettici e la malaria, ha fatto una cosa che ho detto di non fare, e se il mio italiano l'hanno capito le girls, che parlano macua e a stento sanno qualche parola di portoghese, per loro deve averlo capito anche lui.

Giocano a fare le donne di casa, Estefania - che pensavo si chiamasse Stefania - e la piccola Cleide, che a tre anni si fa la doccia da sola e si lava i vestiti, passando il sapone anche sotto le infradito, di un numero più grande del suo. Elisa, la gemella di Estefania, preferisce invece fare la mamma, e si carica sulla schiena, legandoselo nella capulana a mo' di figlio, un animaletto di plastica. Ancora non ho capito se era un cane o un rinoceronte, ma di una cosa sono certa: sta molto attenta quando si gira o si siede. Forse per quello che a volte, per qualche manciata di minuti, Teresinha le siede vicino Germano, che sta muovendo i primi passi.

Loro, bambine di oggi, donne di domani, si trovano in bilico tra le diverse età della vita. Non appartengono interamente a nessuna delle due categorie che noi banalmente chiamiamo "grandi" e "piccole", sanno usare la capulana in tutti i modi, facendo il giusto nodo, che a me sembra ancora più difficile di quello della cravatta.

Cucinano, lavano i materassi e i vestiti, badano ai neonati, danno i biberon, lavano i piatti, sgridano i monelli come Juau, quelli che non stanno fermi un attimo e che hanno una risata contagiosa, fanno la doccia con l'acqua fredda, usando una pietra (sì, una pietra) come spugna e un taglierino come togli smalto. Diventano le nostre interpreti durante questi pochi giorni, ci aiutano a dipingere le pareti del refettorio, a spazzare e a lavare. Alcune volte sorridono, altre sembrano così tristi, altre ancora sono immerse nei loro pensieri più grandi di loro.

Mi verrebbe da chiedere loro cosa vogliono fare da grandi, cosa vorrebbero studiare, se preferiscono la matematica o le lingue, magari per poter un giorno girare il mondo. Ma vedendo che, quando diamo le Barbie alle più piccole, chiedono anche loro se possono avere una "boneca", capisco che è ancora troppo presto per questi discorsi, e che hanno tutto il diritto di giocare anche loro a vestire e pettinare le bambole.

Ed eccole lì, Tarcisia e Teresinha, con i bambini di cui si devono occupare sulla schiena, che finalmente dormono, la mano sinistra che stringe la Barbie e quella destra che cerca la nostra.

Sulla terra rossa lasciano le impronte dei loro piedi nudi, i piedi di quelle che saranno il futuro del Paese. Perché il Mozambico è donna.

Nessun commento:

Posta un commento